“Una partita di tennis particolare” di Vittorio Collodello

 

 

·        Lublino, Lublino!

 

Nell’ottobre del 1990 avevo 40 anni, ma conservavo una buona forma fisica, frutto di allenamenti bisettimanali di tennis che mi permettevano di essere spesso finalista di singolo o doppio in tornei per amatori.

 

In quel periodo il mio lavoro mi portava spesso a Lublino, all’estremo est della Polonia e, tornando dall’albergo all’aeroporto di Varsavia, mi ritrovavo immancabilmente a discutere, in francese, con il solito autista del taxi, un polacco che vantava un passato di giocatore professionista di rugby in Francia.

 

Mi aveva raccontato che nel suo circolo di ex giocatori di palla ovale, in Lublino, lui giocava su un campo di tennis che avrebbero coperto di lì a poco, offrendomi l’opportunità insperata di far apprezzare anche all’estero il mio smagliante stato di forma.

Ci siamo quindi presto accordati per combinare un incontro in occasione del mio prossimo viaggio, una volta completata la copertura.

Informato che tutto era stato sistemato, arrivai in Polonia equipaggiato alla grande, incluso l’ultimo modello di “Wilson” che mi ero da poco procurato.

 

La sera prevista per l’incontro apparteneva ad una fredda e brumosa giornata di fine ottobre, che a Lublino è simile al nostro dicembre; all’orario prestabilito il mio avversario mi raccoglie in albergo e, scusandosi, mi comunica che il pallone di copertura non era stato montato perché fornito incompleto, ma che avremmo giocato ugualmente.

Ero preparato al peggio, così, quando arrivammo al circolo ed il custode, un ragazzetto con una tuta ginnica che ricordo di aver visto solo nella mia fanciullezza, ci introdusse nella penombra dello spogliatoio, non mi scomposi per il fatto di dovermi cambiare alla temperatura ambiente di qualche grado, perché la stufa elettrica, appena accesa, avrebbe cominciato a scaldare a fine incontro.

Poi, mentre il mio avversario non si cambiava, ho da lui appreso che, causa un leggero infortunio, si era fatto sostituire dal custode, garantendomi però un uguale, se non maggiore, impegno sportivo.

La situazione diventa preoccupante quando raggiungiamo il campo da tennis e ne verifico l’illuminazione, costituita da una sola lampada posta su un lungo palo piazzato lungo un lato del campo stesso; l’illuminazione, già così inadeguata, appariva ancora più tenue a causa del clima umido e nebbioso della serata.

Non è finita: il terreno di gioco, composto da terra marrone scuro e molto umida, è ai limiti della praticabilità e, dove non lascio profonde impronte, sollevo grandi zolle che appesantiscono le mie morbide e costose calzature in pelle; inconveniente che non impensierisce il mio avversario che indossa scarpe di tela con la suola in para.

La rete, grazie a Dio, era regolare e con pochi strappi.

Non ho finito di segnalare la mancanza delle righe che spunta il mio taxista con un sacco di calce ed i limiti di gioco vengono così realizzati in pochi minuti, a mano, con tolleranze di rettilineità e perpendicolarità fra fondo e lati di +/-10 cm.

 

E le palline? Eccone due di marca sconosciuta ed in ogni caso del tutto prive di pelo, del tipo che dalle nostre parti non diamo più nemmeno al cane per giocarci…

Mi mancava solo il ragionier “Filini” per sentirmi Paolo Villaggio quando interpretava “Fantozzi”.

Il mio giovane avversario usa una racchetta in legno con corde di polietilene tipo scooby-do (chi ricorda il passatempo che ci regalavamo da bambini intrecciando questi fili di plastica per ricavarci pupazzetti o portachiavi?), ma sembra molto agguerrito.

In effetti, durante i palleggi, noto che potrebbe impe-gnarmi perché, pur giocando un tennis inusuale, corre molto e sbaglia pochissimo.

Più si va avanti e più mi infango e alla difficoltà di mantenere l’equilibrio si aggiunge quella di vedere le palline che, divenute ormai marroni come il terreno, aiutate dalla semi-penombra dei 50 lux che la lampada dispensa sembrano essersi mimetizzate alla mia vista.

Non riesco più, oltretutto, a vedere le righe di gesso che, seppur storte, mi aiutavano a delimitare il perimetro di gioco.

Tutto era divenuto marrone scuro, ma solo per me, perché il mio avversario continuava a giocare ed a correre come se fosse sul centrale di Wimbledon (o meglio, data la superficie, del Roland Garros).

 

Sul 4 a 1 del terzo set, dopo essere riuscito a vincere faticosamente uno dei due sets precedenti, disperato per non poter più reggere l’impari confronto (mi era superiore anche tecnicamente), ho trovato finalmente un escamo-tage per uscire da quell’impasse e salvare la faccia.

Ho proposto al mio avversario, che ha subito accettato, di giocare con la mia super racchetta in kevlar per permettergli di apprezzarne le qualità.

 

·        “quasi classificato”

 

Ovviamente, a fine partita, ho attribuito la sconfitta al cambio di racchetta, con una ulteriore giustificazione per il mio orgoglio ferito, derivata dall’aver voluto forzatamente tradurre la risposta (in polacco) del mio antagonista alla domanda sul suo livello di gioco in “quasi classificato”.

 

 

 Scritto il 17/9/2000

 da Vittorio Collodello